
“Chi vuol godere con Gesù Cristo, deve essere crocifisso con lui.”

Crocifisso con Lui. La frase “Chi vuol godere con Gesù Cristo, deve essere crocifisso con lui” riflette un principio centrale della spiritualità cristiana: per partecipare alla gioia e alla gloria di Cristo, bisogna anche condividere le sue sofferenze.
Questo concetto si basa su molteplici riferimenti biblici, come quello di San Paolo nella Lettera ai Romani (Rm 8,17): “Se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.”
La crocifissione qui non va intesa in senso letterale, ma come una chiamata a vivere con spirito di sacrificio, rinnegando se stessi, portando la propria croce quotidiana e accettando le difficoltà della vita con fede, amore e speranza. È un invito a seguire Cristo non solo nella resurrezione, ma anche nella passione, attraverso atti di carità, umiltà e pazienza.
Questo è un concetto molto difficile da accettare non credi? Come potrebbe accettare l’ uomo un concetto così semplice ma molto intenso?
Sì, è un concetto profondamente difficile da accettare. L’idea di unire la propria vita alla croce di Cristo implica abbracciare la sofferenza, il sacrificio e la rinuncia, realtà che vanno contro l’istinto naturale dell’essere umano, orientato verso la ricerca del piacere, della sicurezza e del benessere.
Accettare questa verità richiede una fede profonda e una comprensione che va oltre la logica umana. Come può l’uomo accettarlo? Forse attraverso alcune esperienze interiori che lo portano a riconoscere che la vera felicità non si trova nelle cose materiali o in una vita priva di difficoltà, ma in un amore che si dona, che si sacrifica e che trova significato proprio nella condivisione della croce.
Ecco alcune prospettive che possono aiutare a comprendere e accettare questo concetto:
- Amore autentico e gratuito:
Quando si ama veramente qualcuno, si è disposti a condividere anche i momenti difficili. La sofferenza, in questa prospettiva, non è fine a sé stessa, ma diventa un atto d’amore e di comunione con Cristo e con gli altri. - La Croce come via verso la libertà interiore:
Il sacrificio cristiano non è un’autopunizione, ma una liberazione dall’attaccamento eccessivo ai beni temporali, dall’egoismo e dall’orgoglio. Portare la propria croce significa vivere con maggiore autenticità e libertà. - La promessa della Resurrezione:
La croce non è l’ultima parola. Per il cristiano, il dolore e la sofferenza non sono mai privi di senso, perché sono orientati alla luce della risurrezione. La speranza che nasce dalla fede in Cristo risorto dà forza per accettare anche le prove più dure. - La testimonianza dei santi e di chi soffre con fede:
Nel corso della storia, molti uomini e donne hanno vissuto con serenità e persino con gioia la sofferenza, proprio perché hanno trovato nella croce la presenza viva di Cristo. Le loro vite testimoniano che questo ideale, per quanto difficile, è possibile. - La forza della Grazia:
Da soli è quasi impossibile accettare la sofferenza, ma la fede insegna che è la grazia divina a sostenere l’uomo in questo cammino. Non è un peso da portare con le proprie forze, ma un cammino condiviso con Cristo, che ha già preso su di sé il peso maggiore.
In fondo, accettare questa verità non significa cercare la sofferenza, ma viverla con uno scopo. È una logica capovolta rispetto a quella del mondo, ma proprio in questa “follia della croce” molti hanno trovato pace, libertà interiore e una gioia profonda, anche nelle difficoltà.
Credo che accettando questa vita, diventeresti santo vero?
Sì, accettare e vivere pienamente questa chiamata alla croce è, in effetti, una delle vie che conduce alla santità. I santi, infatti, non sono persone perfette o prive di sofferenza, ma uomini e donne che hanno saputo abbracciare la propria croce con amore, fiducia e speranza, seguendo l’esempio di Cristo.
La santità, nel cristianesimo, non è un traguardo riservato a pochi eletti, ma una chiamata universale, come insegna il Concilio Vaticano II: “Tutti i fedeli, di qualsiasi stato o condizione, sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità” (Lumen Gentium, 40). Questo significa che chiunque, vivendo la croce con fede, può camminare verso la santità.
Ma cosa significa concretamente diventare santo? Non si tratta di compiere gesti straordinari o di infliggersi sofferenze, ma di vivere ogni giorno con amore, pazienza, umiltà e disponibilità verso gli altri, accettando anche le difficoltà della vita come parte di un disegno più grande.
Come la croce conduce alla santità:
- Amare in modo radicale:
La croce è il simbolo dell’amore più grande: quello di chi dà la vita per gli altri. Vivere con Cristo crocifisso significa amare non solo chi è facile amare, ma anche chi ci fa soffrire, chi ci mette alla prova. - Accogliere la volontà di Dio:
I santi hanno sempre cercato di conformare la loro vita alla volontà di Dio, anche quando questa comportava dolore o incomprensione. Hanno riconosciuto che, dietro ogni croce, si nasconde una grazia e una chiamata a crescere nell’amore. - La croce non come fine, ma come mezzo:
La sofferenza, vissuta con fede, purifica il cuore, insegna la compassione e apre all’essenziale. I santi non cercavano la sofferenza in sé, ma l’accettavano come parte del cammino verso una comunione più profonda con Dio. - La gioia nella sofferenza:
Può sembrare paradossale, ma molti santi hanno sperimentato una gioia profonda proprio nelle difficoltà. Pensiamo a San Francesco d’Assisi, che chiamava “sorella la sofferenza”, o a Santa Teresa di Lisieux, che trovava nella “piccola via” dell’offerta quotidiana un’immensa pace. - La santità nel quotidiano:
Non è necessario compiere gesti eroici per diventare santi. Portare la propria croce può significare anche accettare le fatiche quotidiane con serenità, perdonare chi ci ha fatto del male, dedicare tempo e attenzioni a chi soffre, vivere con coerenza la propria fede.
La santità è possibile, ma non è solitaria.
Cristo stesso accompagna chi sceglie di seguire questa via. Inoltre, la comunità cristiana, la preghiera e i sacramenti sono sostegni preziosi lungo il cammino.
Quindi sì, chi vive con fede e amore la croce, impara a morire a sé stesso per risorgere in Cristo, e così cammina verso la santità. Non una santità fatta di perfezione esteriore, ma di amore autentico, di umiltà e di una fiducia incrollabile nella bontà di Dio.
Purtroppo credo, che oggi non si viva neanche il minimo della fede stessa, parlo della preghiera. Quante persone oggi, pregano con il cuore e non solo per farsi notare, che va alla Santa Messa?
Hai toccato un punto molto profondo e attuale. Oggi, in un mondo sempre più frenetico e orientato verso l’apparenza, la dimensione autentica della fede, della preghiera e della partecipazione alla Messa sembra essersi affievolita per molti. La preghiera, che dovrebbe essere un dialogo intimo e sincero con Dio, rischia di diventare una formalità, un gesto abitudinario o, come dici tu, persino un modo per “farsi notare”.
La stessa partecipazione alla Santa Messa, che è il cuore della vita cristiana, talvolta viene vissuta in maniera distratta, superficiale o come un obbligo da assolvere, piuttosto che come un momento di comunione viva con Cristo e con i fratelli.
Perché la preghiera autentica è in crisi oggi?
- Ritmi di vita frenetici e distrazioni continue:
Viviamo in una società iperconnessa, sempre di corsa e bombardata da stimoli. Trovare tempo per fermarsi, fare silenzio e rivolgersi a Dio richiede una volontà forte e una disciplina che spesso manca. - Perdita del senso del sacro:
Molti sembrano aver smarrito il senso della presenza di Dio nella propria vita. La preghiera non è più vista come un momento per nutrire l’anima, ma come una pratica del passato, inutile o persino noiosa. - Preghiera vissuta come abitudine e non come relazione:
Quando la preghiera si riduce a una ripetizione meccanica di formule, perde la sua forza. Pregare con il cuore significa aprirsi a Dio in modo sincero, come un figlio si rivolge al padre, con fiducia, gratitudine e anche con le proprie fatiche. - Eccessiva esteriorità:
Come dicevi, a volte si va a Messa più per abitudine, per tradizione o per “farsi vedere” che per incontrare Cristo. Ma Gesù stesso ci ha messo in guardia da questa tentazione:“E quando pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per essere visti dalla gente… Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto” (Mt 6,5-6).
Come riscoprire la preghiera autentica:
- Partire dal cuore, non dalle parole:
Pregare non significa recitare formule senza comprendere il significato, ma aprire il cuore a Dio. Anche una semplice frase come “Signore, ti affido la mia giornata” può essere una preghiera autentica, se detta con sincerità. - Fare silenzio e riscoprire la presenza di Dio:
In un mondo rumoroso, il silenzio è rivoluzionario. La preghiera non è solo parlare, ma anche ascoltare. Dio si manifesta spesso nella quiete, come a Elia:“Dopo il terremoto, ci fu il fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera” (1Re 19,12).
Quella “brezza leggera” è la voce di Dio, che parla nel silenzio del cuore. - Partecipare alla Messa con consapevolezza:
La Messa non è un semplice rito, ma l’incontro reale con Cristo vivo nell’Eucaristia. Riscoprire la bellezza della Messa significa vivere con attenzione ogni gesto, dall’ascolto della Parola alla Comunione, sapendo che è un momento unico di grazia. - Educare alla preghiera con la testimonianza:
Spesso ci si chiede: “Come possiamo far pregare i giovani o chi si è allontanato dalla fede?” La risposta non è nelle parole, ma nella testimonianza. Quando qualcuno vede una persona pregare con fede, amore e serenità, ne resta colpito e incuriosito. - Riscoprire la semplicità della preghiera:
La preghiera non richiede gesti straordinari. Può avvenire ovunque e in qualsiasi momento. Il “Padre Nostro”, l’Ave Maria, il Rosario, ma anche una preghiera spontanea durante la giornata, sono tutti modi validi per rimanere in contatto con Dio.
La fede vera non è mai spettacolo.
Gesù stesso ha condannato ogni forma di ostentazione nella preghiera, richiamando sempre alla semplicità e all’umiltà. La preghiera autentica non si vede, non si misura e non si giudica. È un atto interiore, un affidarsi con fiducia, anche nei momenti di aridità o di difficoltà.
Forse oggi pochi pregano con il cuore, ma quei pochi sono come un lievito silenzioso che può far fermentare tutta la massa. La fede non si misura dai numeri, ma dalla profondità di quei cuori che, in silenzio, continuano a portare al mondo la luce della preghiera autentica.
Credo che forse, la fede, la preghiera e una questione soggettiva, ognuna la dovrebbe trovare nel modo in cui crede meglio, non credi?
Sì, la fede e la preghiera hanno sicuramente una dimensione profondamente personale. Ognuno vive la propria relazione con Dio in modo unico, perché ciascuno ha una storia, una sensibilità e un cammino interiore diverso. La fede non è mai qualcosa di imposto, ma un incontro personale che ciascuno vive secondo il proprio modo di essere e di sentire.
Gesù stesso, quando parlava di Dio, lo presentava come un Padre vicino, accessibile a tutti, indipendentemente dalle differenze personali o culturali. Ciò che conta, in fondo, non è la forma della preghiera, ma l’autenticità con cui ci si rivolge a Dio.
La dimensione personale della fede e della preghiera
- La preghiera nasce dal cuore:
Non esiste un “modello unico” di preghiera. Alcuni trovano pace recitando il Rosario, altri preferiscono la lettura della Bibbia, altri ancora parlano a Dio con parole semplici e spontanee. Ciò che conta è che la preghiera sia un dialogo sincero e non un mero rito. - Dio si fa incontrare nella diversità:
Dio non guarda alla forma, ma alla sincerità. C’è chi prega davanti al Santissimo, chi nella natura, chi in casa propria. La preghiera autentica non ha bisogno di luoghi speciali, ma di un cuore aperto. - La fede non si può imporre:
La fede è sempre una risposta libera a una chiamata. Ognuno deve trovare il proprio cammino, il proprio modo di avvicinarsi a Dio, senza forzature o pressioni esterne. - La comunità e l’aspetto soggettivo:
Anche se la fede ha una dimensione personale, non si esaurisce solo in un rapporto individuale. La comunità cristiana esiste per sostenersi a vicenda, per condividere la preghiera, la Messa e il cammino spirituale.
È come una brace: una sola si spegne facilmente, ma insieme le braci si alimentano a vicenda. La comunità aiuta a vivere la fede non solo come esperienza soggettiva, ma come parte di una famiglia più grande. - La sincerità è il criterio principale:
Ci sono persone che pregano con formule tradizionali e altre che dialogano con Dio come con un amico. Nessuna delle due modalità è più valida dell’altra, purché vi sia sincerità. Come diceva Sant’Agostino:“Ama e fa’ ciò che vuoi” – se ami davvero, anche la tua preghiera sarà autentica.
Una fede personale, ma non relativistica
Pur essendo vero che ognuno vive la fede in modo personale, nel cristianesimo esiste anche una dimensione comune che aiuta a orientarsi: la Parola di Dio, i sacramenti, la comunità ecclesiale. Non per limitare la libertà personale, ma per offrire una guida sicura in un cammino che può essere complesso.
La preghiera è come un fiume: ha bisogno di una sorgente (l’incontro con Dio) e di argini che la orientino (la Parola, i sacramenti, la comunità). Senza questi argini, rischia di disperdersi o di diventare pura emozione senza radici.
In definitiva, sì: la fede è un cammino personale.
Ma è anche un cammino in cui si è accompagnati. Ognuno deve trovare il proprio modo di pregare, il proprio linguaggio, i propri tempi. Dio non guarda la forma della preghiera, ma la disposizione del cuore. E chiunque si avvicini a Lui con sincerità, anche in modi diversi da quelli tradizionali, fa un passo verso quella Verità che dà senso alla vita.
La bellezza della fede sta proprio in questa libertà, in questo rapporto intimo e personale, che però non isola, ma unisce chi prega a tutta la comunità dei credenti, in una comunione invisibile ma reale.
